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Giardino Zen |
La scrivania era sovraccarica di registri di contabilità e appunti sparsi, il cestino era stracolmo di cartacce senza alcuna utilità e sulle mensole erano stipate un sacco di cianfrusaglie che non si era ancora deciso a buttare via. Guide turistiche di paesi mai visitati, dvd mai visti, una decina di palline antistress – oh, quelle le aveva usate un sacco di volte, erano consumate e rovinate dai segni delle unghie – e un narghilè – inutile dire che aveva usato anche quello -.
Solitamente i clienti che entravano nella stanza si perdevano
minuti interi ad osservare le mensole, ma se qualcuno fosse entrato in quell’istante
non le avrebbe degnate di uno sguardo, dal momento che sotto di loro c’era un cadavere
coperto di sangue. Kevin Stanners.
Come
diavolo era possibile che Kevin fosse nel suo ufficio a quell’ora? Era l’unica
domanda che Matt riusciva a farsi. Era come se un muro all’interno del suo
cervello gl’impedisse di andare oltre e raggiungere quel pensiero, quella
parola: morte.
No, ragionava come se Kevin fosse in piedi davanti a lui,
incantato davanti al narghilè.
- Cosa ci
fai tu qui? Avrebbe voluto chiedergli.
Eppure era lì, disteso a terra con la schiena coperta di sangue e gli occhi
vitrei spalancati a fissare qualcosa che non esisteva.
Matt si allontanò dalla porta e andò a sedersi dietro la scrivania. Provò a
chiudere gli occhi, ma quando li riaprì rivide il cadavere davanti a lui. Fu
allora che la rabbia gli invase le vene.
- Dannazione
Kevin, perché diamine sei venuto a crepare nel mio ufficio?
Sbatté il pugno
contro la scrivania, facendo cadere qualche penna. Una rotolò vicino al corpo
del suo ormai ex superiore, il dottor Stanners, responsabile delle risorse
umane, lo stesso identico bastardo che voleva buttarlo fuori dall’azienda. Ed
ora era lì, stecchito nel suo ufficio.
- Cosa
penserà la gente, eh? Diranno tutti che sono stato io, dannazione! Che sono
rimasto qui a lavorare fino a tardi nel disperato tentativo di mostrarmi un
buon impiegato ed evitare che tu mi licenziassi in tronco. Penseranno che sei
venuto a silurarmi ed io non ci ho più visto. Nessuno avrà il minimo dubbio, visti
i miei precedenti.
I precedenti di Matt comprendevano una lunga serie di
fughe dissociative, come le chiamava il suo psichiatra. Un nome elegante per
dire che a volte si trovava in un posto senza ricordare come ci era arrivato, cadeva
in stato confusionale e faticava a ricordare persino chi fosse. Ma ora lo
sapeva, chi era. Era Matt Lattern, quarantadue anni, single, impiegato alla
Stanson Corporation. Il pensiero di esser certo della sua identità lo calmò.
- Bene, passiamo alla domanda successiva.
Come sei arrivato qui?
Chiese a se stesso. Un brivido freddo gli corse
lungo la colonna vertebrale quando, con orrore, si accorse che non ne aveva la
minima idea. «Dannazione!» urlò, e sentì l’eco della propria voce percorrere il
corridoio. Andò di corsa a chiudere la porta. Grazie a Dio non c’era nessuno in
ufficio, a quell’ora. Eccetto lui e Kevin, naturalmente.
- Concentrati Matt, come
sei arrivato qui?
Silenzio, sia dentro che
fuori di lui. Non c’era alcun rumore. C’erano solo quelle palline antistress
consumate. Ma il suo non era stress, era pazzia. I segni della sua follia erano
sparsi in tutto l’ufficio: i medicinali nel cassetto della scrivania, le
palline rovinate, il narghilè usato per intontire i sensi … E il cadavere. «No»
piagnucolò piano «Non sono stato io». O forse sì, era stato lui. Dopotutto,
Kevin non gli era mai stato simpatico e dopo che aveva minacciato di
licenziarlo aveva cominciato ad odiarlo. Santo cielo, l’aveva ucciso. L’aveva
ucciso e non se ne ricordava. Chi l’avrebbe creduto? L’avrebbero rinchiuso in
manicomio, ecco cos’avrebbero fatto. Due infermiere l’avrebbero portato via,
stretto in una camicia di forza. «Sì, signor Lattern, è davvero terribile che
qualcuno abbia ucciso il signor Stanners e l’abbia portato nel suo ufficio»
avrebbero detto, in tono gentile, accompagnandolo verso la stanza di una
clinica per persone come lui.
Un rumore.
Matt si voltò e non ebbe nemmeno il tempo di guardare in faccia il suo assassino. Sentì il freddo della lama che gli entrava nel petto, e rise.
'Ho passato gli ultimi istanti della mia vita pensando alla morte di qualcun altro. Devo proprio essere pazzo'.
Christine ritrasse subito il coltello, inorridita. Non capiva il senso di quella risata.
D'altra parte, gliel'avevano detto che Lattern era matto.
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