Un, due, tre stella..

Starlet_eyes Photography
“ Un, due, tre stella” nel buio della stanza ovattata
Maria ricordava i passatempi di bimba, un’infanzia felice vissuta in un cortile spoglio di artifici e giochi, adombrato da lunghi e maestosi cipressi, in un paesino rurale ai piedi delle colline toscane.

“Un, due, tre stella” poteva riconoscere distintamente i volti rosei delle sue amiche che come fenicotteri palustri si reggevano in equilibro su di un piede cercando di rimanere immobili.

“Un, due, tre stella” era il momento della giornata che più le piaceva, dopo la merenda pomeridiana, quasi sempre composta da un frutto e un tozzo di pane, lì si sentiva libera, tra le corse affannate e le chiassose risate, aspettava madida le luci della sera.

La sua famiglia aveva padroni, generazioni di vignaioli al servizio dei viticoltori e lei sarebbe presto diventata donna tra quegli ordinati filari. Ma qualcosa, nel passaggio dalla fanciullezza alla pubertà, era andato per il verso sbagliato.
Quell’atto d’amore che tanto aveva atteso e sublimato, le era stato rubato e così, depredata dei suoi pensieri puri si era ritrovata spoglia e dolorate tra i grappoli color rubino.

Quella gonna bianca in pizzo sangallo, che aveva scelto con acerba malizia, era diventata uno straccio, memore silenzioso di un sogno infranto. Macchie di terra e sangue le sporcavano il ventre immaturo e chiazze rosso vinaccia comparvero sul viso struccato.

“…mai più mi chinai nemmeno su un fiore
più non arrossii nel rubare l’amore
dal momento che inverno mi convinse che Dio
non sarebbe arrossito rubandomi il mio…”

Quella vecchia canzone di De Andrè le tornò alla mente, la ascoltava da piccina mentre la mamma rammendava braghe e aveva scandito regolarmente tutti i pomeriggi invernali dei suoi primi anni di vita. Dimenticò per sempre ogni preghiera fatta nei vespri della sera.

Maria, come la Vergine madre ma con un destino più triste, partorì un figlio prematuro e illegittimo nel mese della potatura e, come un ramo secco,  lo buttarono via. Da quel giorno non fu più lei, avvizzita nella pelle e sterile nelle parole, si chiuse in una camera ai bordi del paese. Crebbe nella solitudine e nella miseria interiore, sognando di tornare ancora in quel cortile spoglio, all’ombra dei cipressi che per un tempo troppo breve l’avevano resa felice.

“Buon giorno signorina” una donna in divisa bianca varcò la porta trascinando un cigolante carrello e subito si apprestò ad aprire le pesanti tende.

“Facciamo entrare un po’ di luce, è l’ora della tua colazione preferita” sul vassoio consumato, in linea uno dietro l’altro, una mela, un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua e quattro pastiglie azzurre. L’infermiera afferrò saldamente quel pasto frugale e lo mise dolcemente in grembo alla poverina.

Quella serva del Signore, Maria l’aveva battezzata così, sfiorò le sue mani per scaldarle un po’ ma lei si ritrasse con fare scostante e mugugnò un lamento, poi con vergogna e umiltà chiese scusa e ringraziò il suo angelo custode.

Gabriella, così si chiamava, la creatura cacciata dal paradiso e caduta direttamente in quell’inferno di follia umana.


Ancora con gli occhi socchiusi, inghiottì le pastiglie, morsicò la mela e addentò avidamente il pane e nel giro di pochi minuti il sonno la colse. Nello spazio onirico dei ricordi, riprese a giocare “un, due, tre stellone!” sorrise lievemente, anche oggi ho vinto io.

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